L’aumento del numero di centrali elettriche a carbone in Cina e in India sta rendendo ancora più complessi i gli sforzi compiuti dal resto del mondo in fatto di riduzione delle emissioni di CO2 in atmosfera. Nel 2021, infatti, si sta registrando un incremento dell’energia elettrica generata dalla combustione del combustibile fossile più sporco: il carbone. È la prima volta che accade dal 2015.

Il carbone della Cina

L’accensione di nuovi impianti a carbone è scesa del 34 per cento nel 2020 rispetto all’anno precedente a livello globale. I progetti in fase di sviluppo, tra l’altro, hanno faticato a ottenere finanziamenti e molti sono stati ritardati a causa della pandemia da Covid-19. Un trend guidato dagli Stati Uniti che hanno tolto 11,3 gigawatt generati dal carbone dal loro mix energetico. Segue l’Unione europea che ha abbandonato progetti per 10 gigawatt.

La positività, in termini ambientali, di tali ritiri è, però, cancellata dai 38,4 gigawatt cinesi: dopo cinque anni di decrescita “felice”, la nuova potenza delle centrali a carbone in costruzione è passata da 501 gigawatt a 503. Declino che peraltro continua ovunque fuorché in Cina dove si concentrano il 76 per cento di nuove costruzioni.

I dati, contenuti nel settimo rapporto Boom and bust 2021: tracking the global coal plant pipeline, redatto dall’organizzazione Global energy monitor (Gem), mettono in evidenza anche la dipendenza energetica degli stati vicini alla Cina. Indonesia, Filippine, Vietnam e Bangladesh hanno, infatti, ridotto dell’80 per cento la propria produzione da carbone ma in futuro, in caso di instabilità economica, potrebbero rivolgersi alla Cina per questioni energetiche.

Il boom del carbone in Cina è stato reso possibile grazie a ingenti investimenti da parte del governo. Che per la prima volta, però, è stato criticato: il Central environmental inspection (Cei), organo interno al governo centrale cinese, ha pubblicato un rapporto disapprovando il dipartimento dell’energia per l’applicazione ‘lassista’ delle restrizioni previste per contenere le emissioni di co2. Il governo centrale, dal canto suo, sembra voler continuare a far crescere il settore del carbone fino al 2025.

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Per la prima volta, dopo cinque anni, il numero di progetti relativi a centrali a carbone è tornato a crescere © Kevin Frayer/Getty Images

Il carbone dell’India

In India, la capacità di energia a carbone è aumentata di soli 0,7 gigawatt nel 2020. Eppure, una bozza del National electricity policy (Nep), dipartimento del ministero dell’Energia indiano, mostra come l’India stia pensando di costruire una nuova centrale a carbone.

“Mentre l’India è impegnata a incrementare la sua capacità elettrica attraverso fonti di generazione non fossili”, si legge nella bozza diffusa dall’agenzia di stampa Reuters, “potrebbe essere ancora necessario il carbone, in quanto fonte di generazione elettrica più economica”. Nonostante vengano prese in considerazione le più sofisticate tecnologie contro l’inquinamento, e sebbene le aziende private e statali non abbiano più investito nel settore negli ultimi anni perché economicamente insostenibile, la bozza del dipartimento suggerisce di usare gas e carbone per garantire una maggiore stabilità della rete elettrica.

L’India teme l’intermittenza da fonti rinnovabili. Allo stesso tempo il dipartimento suggerisce di sviluppare sistemi di accumulo, tra cui anche l’idroelettrico, sebbene quest’ultimo, si legge nella stessa bozza, sia in grado di garantire un accumulo di energia troppo basso: appena 4,8 gigawatt sui 96 potenzialmente immagazzinabili.

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Il governo indiano suggerisce di usare gas e carbone per garantire una maggiore stabilità della rete elettrica © Daniel Berehulak/Getty Images

Responsabilità comune ma differenziata

Il protocollo di Kyoto, redatto nel 1997, stabiliva il principio di “responsabilità comune ma differenziata” secondo il quale, nel controllo delle emissioni i paesi industrializzati si fanno carico di maggiori responsabilità, in considerazione dei bisogni economici dei paesi in via di sviluppo.

Dopo più di 20 anni, però, gli equilibri sono profondamente cambiati. Se nel 1980 la Cina emetteva il 7,52 per cento della CO2 emessa nel mondo e l’India l’1,6, nel 2017 le quote rispettive delle emissioni mondiali erano cresciute al 27,21 e al 6,82 per cento (contro gli Stati Uniti al 14,58 per cento). Oggi la Cina è il più grande produttore di emissioni di CO2.

Il caso di Cina e India, che pur non avendo emissioni storiche importanti sono diventate oggi tra i maggiori produttori di CO2, dimostra che il principio stabilito dal protocollo di Kyoto è superato. Questi paesi devono invece puntare a rispettare i propri contributi determinati a livello nazionale (Ndc) che sono stati stabiliti dall’accordo di Parigi del 2015, che per la prima volta ha coinvolto tutti i paesi del mondo. Il concetto è che ciascuno deve fare la sua parte: è il solo modo di limitare l’innalzamento delle temperature “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.