Gli Stati Uniti hanno approvato il rilascio di tre detenuti del carcere di Guantanamo. La misura riguarda, in particolare, il più anziano prigioniero della struttura di massima sicurezza, il 73enne Saifullah Paracha, in cella dal 2003 per presunti legami con l’attentato dell’11 settembre 2001 ma mai sottoposto a processo, così come gli altri due prigionieri beneficiari della misura. Essa non sarà immediata dal momento che ora servirà sottoscrivere accordi con gli stati di origine, ma la notizia potrebbe segnare un primo passo dell’amministrazione Biden verso la chiusura di un carcere considerato la culla delle violazioni dei diritti umani.

Una protesta negli Usa per chiedere la chiusura di Guantanamo
Una protesta negli Usa per chiedere la chiusura di Guantanamo © Win McNamee/Getty Images

La storia di Saifullah Paracha

Saifullah Paracha era un uomo d’affari che alla fine del secolo scorso si era costruito un piccolo impero imprenditoriale prima a New York, poi a Karachi. Studente al New York Institute of Technology, abbandonò gli studi e iniziò a lavorare nel settore dei viaggi guidando una sua agenzia, poi tornato in Pakistan entrò nell’industria dei media e dell’intrattenimento, gestendo al contempo un’azienda che operava nell’ambito dell’abbigliamento.

Paracha viaggiava molto e spesso finiva in Afghanistan, parte di un accordo tra i due stati per favorire il business pakistano nel paese. Fu durante uno di questo viaggi che nel 1999 o 2000, come racconta nel dettaglio il Guardian, conobbe Osama Bin Laden. Gli lasciò un biglietto da visita e gli propose di farsi intervistare dalla tv pakistana passando dalla sua casa di produzione, in un’era in cui intervistare Bin Laden era cosa normale – lo aveva fatto anche la Cnn.

I problemi per Paracha arrivarono più tardi, quando gli attentati dell’11 settembre 2001 erano già nella memoria collettiva e la guerra al terrore di George W. Bush era ben avviata. Nell’estate del 2002 un uomo si presentò nel suo ufficio con il suo vecchio biglietto da visita e gli propose assieme a un suo socio una serie di affari da portare avanti nel settore dei media, del real estate e della finanza. Ma anche di aiutarlo con alcune pratiche negli Stati Uniti a dir poco sospette: roba di visti, conti bancari e burocrazia varia.

Quest’uomo e il suo socio erano Khalid Shaikh Mohammed e Ammar al-Baluchi, due delle menti dell’attacco alle torri gemelle, ma Paracha pur non negando di avergli dato una mano, ha giurato di non aver mai saputo del loro legame con Al-Qaeda, visto che si erano presentati con nomi falsi. Un dettaglio che in effetti è emerso anche negli interrogatori degli anni successivi, con gli stessi membri dell’organizzazione terroristica che hanno confermato che Paracha non fosse a conoscenza della loro reale identità. Oltre a questo, il figlio di Paracha, Uzair, arrestato per aver collaborato con lui, è stato liberato nel 2018 dopo un lungo processo.

Il padre invece non è mai stato processato e su di lui non pendono accuse specifiche, se non quella di essere un uomo pericoloso che ha collaborato strettamente con Al-Qaeda. Dal 2004 si trova nel carcere di Guantanamo senza mai aver visto un tribunale, in condizioni di salute precarie tra diversi infarti, diabete e ipertensione. Presto però potrebbe tornare in libertà, dopo l’ordine di rilascio approvato dall’amministrazione Biden.

Verso la chiusura di Guantanamo?

La decisione degli Stati Uniti di liberare Saifullah Paracha e altri due detenuti, Abdul Rabbani e Uthman Abdul al-Rahim Uthman, tutti mai processati nonostante i quasi due decenni di detenzione, è stata accolta positivamente dalle organizzazioni per i diritti umani. Guantanamo è considerato un buco nero nella democrazia americana dal momento in cui è nata, nel 2002, visto che come denunciato da diversi rapporti e inchieste i detenuti sono vittima di torture, pratiche disumane come il waterboarding, trasferimenti forzati, diniego di accesso alle cure sanitarie e a un equo processo

In principio la struttura di massima sicurezza, creata per azzoppare il terrorismo islamico post 11 settembre 2001, ospitava più di 700 persone, oggi il numero è sceso a 40. L’ex presidente Barack Obama aveva promesso di chiuderla ma ha dovuto rinunciare per l’ostruzionismo del Congresso, Donald Trump invece ha esaltato il centro arrivando perfino a dismettere l’ufficio che doveva occuparsi della dismissione. Ora la palla è passata a Joe Biden che se da una parte non si è più espresso in modo esplicito sulla chiusura, dall’altra è noto per le sue dichiarazioni anti-Guantanamo del passato. La decisione di liberare i tre detenuti potrebbe allora essere un primo step in questa direzione.

Saifullah Paracha, Abdul Rabbani e Uthman Abdul al-Rahim Uthman potrebbero comunque dover aspettare anni per uscire dalla struttura statunitense situata sull’isola di Cuba. Al suo interno ci sono in effetti altri detenuti già beneficiari di una misura simile, che però ancora non si è concretizzata, mentre per altri ci sono voluti fino a dieci anni perché divenisse effettiva. Ecco perché  Hina Shamsi, direttrice del National security project dell’American civil liberties union (Aclu), ha sottolineato che “è incoraggiante che stiano finalmente iniziando a vedersi le prime decisioni di trasferimento o rilascio per i prigionieri di Guantanamo detenuti a tempo indeterminato, ma ora è fondamentale focalizzarsi sull’implementazione”. Quest’ultima potrà venire sotto diverse forme e richiede accordi diplomatici con i paesi di origine, che possono prevedere l’incarcerazione nelle prigioni locali o l’avvio di un processo.