Vera Gheno è una sociolinguista, anzi social-linguista. Studia, cioè, l’evoluzione della lingua italiana grazie ai comportamenti che teniamo giorno dopo giorno, anche sui social network. Su Instagram è @a_wandering_sociolinguist, ma il consiglio è di seguirla anche su Facebook dove dà vita a post che tra qualche tempo definiremo “didattici”.

In occasione dell’ampia copertura che LifeGate ha realizzato per i dieci anni dall’adozione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, il contributo di Vera Gheno ci ha aiutato a capire qual è il ruolo della lingua e dei nostri comportamenti linguistici per la costruzione di una società più equa, dove la parità di genere non sia più un miraggio lontano.

Tra le opere di Vera Gheno, Femminili singolari–Il femminismo è nelle parole, edito da Effequ,  affronta e smonta le convinzioni linguistiche degli italiani “rintracciandone l’inclinazione irrimediabilmente maschilista”, come si legge nella seconda copertina. Un’inclinazione che, come ogni altra deriva, può essere superata con l’istruzione, l’educazione, la conoscenza. Perché solo migliorando la competenza linguistica si può superare lo status quo figlio di una società troppo sbilanciata sul genere maschile.

vera gheno
La sociolinguista Vera Gheno

Nel suo libro “Femminili singolari” ricorda come le prime raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana risalgano al 1987 (Alma Sabatini). Cosa è cambiato in tutto questo tempo nella battaglia verso una lingua più inclusiva, equa e giusta?
Io non riesco a vederla come una battaglia. Io la vedo come un prevedibile e atteso progresso linguistico che va di pari passo con il progresso sociale. Negli ultimi 50 anni siamo molto cambiati rispetto a come vediamo la società. C’è stato un periodo in cui eravamo tranquillamente post-coloniali e questo ci sembrava assolutamente normale.

Oggi stanno cambiando le sensibilità, le necessità della società e la lingua viaggia – più o meno – in parallelo. Sicuramente sono stati fatti passi avanti che coincidono con i passi avanti fatti sia dalle donne che dalle minoranze, finora lasciate in secondo piano. Anche perché le donne non sono concepibili come una minoranza visto che sono la maggioranza della popolazione globale.

Siamo in cammino costante, tant’è vero che dieci anni fa i problemi erano due: quello della rappresentatività femminile da un punto di vista linguistico e quella del politicamente corretto. Quindi l’attenzione nei confronti delle minoranze, come le persone omosessuali. Poi si è aperto un fronte nuovo, quello verso le persone transgender e non binarie. Non bisogna mai sedersi sugli allori e pensare che sia finita perché la società è in costante trasformazione. Come quando si cresce e le ossa fanno male proprio perché stiamo crescendo. Così è a livello sociale. Il cambiamento è sempre qualcosa che genera fastidio, sofferenza, paura. Quindi è del tutto naturale che si faccia fatica a modificare le proprie abitudini.

Come si inserisce il progresso della lingua verso la parità di genere nel contesto attuale? Mi riferisco ad esempio al disegno di legge (ddl) Zan in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere.
Chi denigra la questione linguistica, la denigra dicendo che sono “solo parole”. Molte persone sembrano dimenticarsi che noi esseri umani siamo fatti di parole. Le parole sono il mezzo attraverso il quale noi comunichiamo con gli altri, ma anche il mezzo attraverso il quale noi ci identifichiamo. Quindi le parole sono un fortissimo atto identitario. Non avere parole per definirsi è un problema, crea un problema di visibilità all’interno della società. La corsa apparente alla nominazione anche delle minoranze è concorde, è in armonia con il fatto che queste minoranze reclamano nuovi spazi all’interno della società. Può essere vissuto da molti come traumatico perché la nostra società è una società “normalizzante”, “normocentrica” – un po’ alla Judith Butler diciamo – per cui tutti quelli che si distinguono o deviano in qualche modo da quella che è percepita come normalità hanno o avuto qualche problema in più a livello sociale. O addirittura meno diritti, meno visibilità appunto, meno riconoscibilità.

Nominare bene le cose contribuisce a dare loro più concretezza; nominare bene le diverse fattispecie della società fa sì che piano piano si cerchi di andare nella direzione di una società in cui le diversità possano convivere in modo paritario, legalitario. D’altro canto, se nominare le cose permette di concretizzarle e di vederle meglio, si capisce anche il motivo per cui si insiste così tanto sulla necessità di usare la parola femminicidio. Il femminicidio non è semplicemente un omicidio perpetuato ai danni di una donna, ma è un omicidio di una donna in quanto donna e quindi come riflesso di una visione della donna come proprietà di un uomo che sia il padre, il marito o ex marito. O addirittura un fratello o un figlio.

Quello che sottolinea il ddl Zan è che come non è giusto offendere, denigrare, togliere dei diritti a una persona per la sua etnia, per la sua religione, così non è giusto denigrare una persona perché è omosessuale o perché transessuale o non rientra nel modello di eterosessuale, cisgender, a cui siamo abituati. Secondo me è una questione sacrosanta. Cioè mi sembra assurdo che ci sono persone che vivono la questione come un bavaglio, come se dall’alto dei nostri privilegi fosse normale poter offendere chi è diverso da noi perché è diverso da noi. È una cosa che mi fa esplodere il cervello per certi versi, però capisco chi fatica a rinunciare ai propri privilegi anche quando non sa di averli.

Come si risponde a chi usa violenza verbale, soprattutto sui social, per difendere questo tipo di privilegi all’interno di un dibattito su questi argomenti?
Bisognerebbe intendersi sull’argomento del dibattito perché questo non è dibattito, questa è provocazione. Non c’è un modo giusto per rispondere. I parametri in base ai quali io rispondo sono: “Posso dire qualcosa che è utile a chi sta leggendo, alla moltitudine silenziosa che ci circonda quando siamo sui social?”. Perché non siamo mai solo io e l’interlocutore, intorno a noi c’è un sacco di gente che legge. Se si tratta semplicemente di quello che io chiamo sea lioning – cioè quelli che fanno i leoni marini sugli account altrui e fanno commenti lunghissimi che richiedono tantissimo tempo, ma in realtà non vogliono capire nulla, vogliono solo portare avanti la loro idea o ideologia – in questo caso io non rispondo e nascondo il commento così il dibattito non risulta inquinato.

Se chi fa politica o chi appartiene a settori “in vista” della società utilizza un linguaggio reazionario in modo consapevole, può influire sulla questione della parità e della violenza di genere?
Assolutamente sì. Nessuno usa la lingua in modo disinteressato. Qui non si sta parlando di normale evoluzione linguistica, si sta parlando di guidare la lingua nella direzione che fa comodo a me; un po’ come fece Benito Mussolini durante il Ventennio fascista. Uso la lingua per scopi di propaganda, per scopi politici o di marketing. Nessuno di questi usi in realtà è naturale. Si piega la lingua in funzione di qualcosa che serve.

Se i mezzi d’informazione preferiscono usare un linguaggio che perpetua gli stereotipi di genere e violenza, non fanno un buon servizio alla società e alle persone. In Italia abbiamo un problema di grande territorialità, cioè molti vorrebbero che la lingua rimanesse com’è, non vogliono che cambi e, ogni volta che si parla di cambiamenti linguistici, ci si irrigidisce.

Vorrei aggiungere un’altra cosa. La fissazione del linguista Tullio De Mauro era portare tutte le persone a un livello di competenza linguistica decente per riuscire a essere pienamente cittadini del proprio paese, cioè partecipare alla vita della polis. Ovviamente occorre investire nell’educazione e nell’istruzione. Non mi sembra che ciò che si sta facendo oggi, sembra sia meglio tenere le persone in una situazione di non altissima competenza. Quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha citato la parola “infodemia” intendeva che una parte la dobbiamo fare noi, cioè dobbiamo capire se una notizia è vera o falsa. Chi ci governa dovrebbe aumentare la competenza linguistica delle persone perché la maggior parte delle fake news, delle bufale, le “becchi” proprio così.

Migliorando la competenza linguistica delle persone le fake news avrebbero meno “fiato”.

La Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica è un trattato vincolante per gli stati che l’hanno adottata, non è qualcosa di cui ci si ricorda ogni tanto. Secondo lei uno strumento del genere può contribuire a cambiare le cose?
Sicuramente è utile, peccato che non tutti gli stati la vogliono abbracciare. C’è chi non la vuole ratificare, c’è chi non l’ha mai ratificata, è una situazione molto fluida. Ho la sensazione che ci siano paesi, nazioni, persone che fingono di non vedere il problema e che preferiscono una donna defilata. Preferiscono davvero lo status quo.

Infatti alcuni paesi vogliono ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul perché sarebbe “un attacco all’ordine naturale della famigli”. Qui, però, si parla di non usare violenza domestica, riguarda le donne, ma anche i bambini, gli anziani.
Questa cosa dell’ordine naturale è una falsità. Come diceva la biologa Barbara Gallavotti, l’omosessualità è presente in circa 1.500 specie di animali. La domanda che ci si deve fare quindi è: naturale in che senso? Naturale perché fa comodo a certi ordini sociali, non perché è naturale. Per cui forse la Convenzione di Istanbul può fungere da sprone per le società patriarcali che, in quanto tali, vedono la donna che si vuole emancipare come un fastidio così come l’uomo che non vuole essere virile.

Quali sono le tre parole che finalmente possiamo dire “ce l’hanno fatta”, che sono diventate d’uso comune, e quali invece le tre parole su cui si sta facendo una gran fatica?
Femminicidio: perché, nel bene o nel male – nonostante ci sia qualcuno che ancora protesta – la gente la usa, quindi il concetto sta entrando.

Sindaca, grazie alla doppietta Virginia Raggi-Chiara Appendino.

Inclusività è una parola che sento usare molto più di prima e di solito non si ha da ridire su questa parola. In realtà io preferisco “convivenza delle differenze”, come dice Fabrizio Acanfora, però “inclusività” la sento pronunciare sempre più spesso.

Tra le parole “difficili” sicuramente c’è cisgender, perché chi è cisgender spesso non vuole avere un’etichetta. “Io sono normale, sono loro che sono trans”.

Poi sicuramente mestruazioni. Ci sono ancora molti tabù nel dire la parola “mestruazioni”.

E per terza direi linguaggio inclusivo, che è diverso da “inclusività”. Perché “inclusività” è qualcosa di cui tutti parlano in modo teorico, ma poi quando si va a toccare la lingua c’è chi pensa che la lingua non si tocca. “Inclusività” è vissuta come opportunità per le persone disabili, come attenzione nei confronti degli stranieri, dei migranti; siamo tutti inclusivi, però quando vai a toccare la lingua… ecco quello non si fa.