Si parla spesso di un ritorno alla terra, soprattutto in questo periodo di crisi, sanitaria ed economica, che ha portato a mettere in discussione la vita in città. Ma quanti hanno davvero fatto questa scelta e hanno avuto il coraggio di trasferirsi in campagna o addirittura in montagna per intraprendere il mestiere di un tempo, basato per lo più su allevamento o agricoltura? Ancora pochi.

Abbiamo conversato con una di queste persone che, ormai quasi dieci anni fa, ha deciso di mollare la sua carriera da aspirante accademico per allevare capre e produrre ottimi formaggi. Si chiama Martino Patti e la sua Cascina Badin a Castagneto Po, in Piemonte, oggi è una piccola realtà imprenditoriale, non solo una bella storia da raccontare. Durante l’intervista sentiamo in sottofondo il suono delle campane del paese.

Martino Patti
Martino Patti a Cascina © Cascina Badin

Dalla Normale di Pisa all’allevamento di capre nel Monferrato

Un pastore come forse ne esistono pochi oggigiorno: Martino Patti, classe 1978, torinese, vanta un curriculum davvero notevole. Appassionato di storia, si laurea a Lione nel 2004 e, nel 2007, prosegue i suoi studi con una specializzazione in germanistica. Infine, dal 2008 al 2011 è allievo della classe di lettere alla Scuola normale superiore con sede a Pisa. Dopo aver lavorato per alcuni anni all’enciclopedia Treccani di Roma come collaboratore della direzione editoriale molla tutto e torna in Piemonte per costruirsi un futuro nuovo, diverso. Tutt’altro che semplice.

Un pastore è sempre attaccato ai suoi animali, il suo diventa un vero e proprio stile di vita. Patti alleva e si prende cura delle capre, animali sensibili ed esigenti che poi lo ripagano con il loro prezioso latte. Cascina Badin è una piccola azienda che sta cominciando ad affrontare il mercato con un approccio di pura eccellenza gastronomica, in una dimensione eco-friendly. Tra i prodotti da acquistare nella Cascina Badin c’è la robiola, la toma ‘’Saronsella’’, la ricotta di capra, i tomini monoporzione, chiamati ‘’bottoni’’, lo yogurt di capra colato alla greca nei teli di lino, diversi formaggi stagionati nel carbone vegetale e altre tipologie di tome.

Cosa l’ha spinta a cambiare la sua vita in modo così radicale?
Il contesto in cui vivevo era caratterizzato da una mia forte intolleranza rispetto alle dinamiche delle baronie in ambito accademico. Un grande disagio, il mio, sperimentato nel vedere con i propri occhi che riesce a ottenere un salario non chi ha delle competenze, ma chi sottostà a certe dinamiche quasi servilistiche. Tutto è nato da qui. Lo sapevo già, ne ero ben consapevole, ma non mi aspettavo occorresse arrivare fino alla propria auto-reificazione. Diventare quasi un oggetto, una pedina in mano a qualcun altro. Non lo accettavo e nel contempo ho realizzato che non sarebbe mai arrivata la soddisfazione, la ricompensa finale. Così ho mollato.

Quando la scelta?
L’enorme frustrazione è arrivata quando ho capito che dinamiche molto simili tendono a presentarsi anche in ambito commerciale. Ne ho concluso che molto probabilmente si tratta di un fatto antropologico, molto italico, anche se non solo. Tutto è compartimentato per clientelismo – un pesante retaggio storico e culturale che nella penisola assume carattere strutturale e investe, direi, ogni ambito della vita associata. E poi oggi, fatto decisivo, prevale l’immagine, la rappresentazione, a discapito della sostanza. Cosicché, alla fine, qual è il prodotto che riesce a ricavarsi una propria fetta di mercato? Il migliore nella sua categoria? E chi possiede le capacità, ovvero le conoscenze, per dire “questo sì che è buono!” oppure “che schifezza!”?

Personalmente temo che riesca a piazzare il proprio prodotto, a un prezzo decoroso, non il bravo produttore, ma colui che è ben inserito e riesce a soddisfare brillantemente le richieste imposte dal virus micidiale della comunicazione, social in testa.

Da dove nasce la sua passione per le capre? Perché ha deciso di allevare proprio questi animali?
Non so spiegarlo con chiarezza. Non sono un appassionato di capre: mi piace allevare tutti gli animali in generale. È una cosa viscerale. Quando sento un animale di grossa taglia, come una mucca o un maiale, rendersi presente con il proprio respiro o quando sento il profumo di letame in certe piccole stalle pulite qui in collina, provo un brivido dentro legato a qualcosa di ancestrale. E poi gli animali sono esseri rispettosi, non conoscono l’intenzionalità del male, ed è per me fonte di pace interiore il poter condividere la mia vita con loro, lottando insieme per una decorosa e onesta sopravvivenza. Ma soprattutto la nostra è stata ed è un’avventura famigliare, che ci vede tutti uniti: io, mia moglie che è infermiera, i miei due fantastici suoceri e, non da ultimo, mia figlia. Abbiamo patito insieme. Abbiamo condiviso anche momenti difficili, durissimi. E questo ha fatto sì che i nostri legami si rafforzassero. Insieme abbiamo messo in piedi questa piccola realtà, in un posto direi normale, non particolarmente turistico, a 20 chilometri dal centro di Torino. Ci troviamo in una delle più antiche borgate di  Castagneto Po, piccolo comune collinare nelle vicinanze di Chivasso, nel primo Monferrato.

Come mai propri questo luogo?
Di fatto il posto non era importante: avremmo potuto adattarci a qualsiasi contesto. L’essenziale era recuperare con gradualità, un pezzo alla volta, un lembo di terra soggetta ad abbandono. Ricostruire e custodire la memoria di un luogo e le consuetudini di chi lo ha abitato, dà un senso profondo alla nostra impresa: qui si è sempre sparso sangue per sopravvivere, se la poteva cavare solo chi sceglieva la strada dell’umiltà, della fatica, dell’onestà, della condivisione anche comunitaria. Valori che credo debbano tornare oggi al centro. Le competenze sul campo le ho acquisite principalmente da solo.

Per la scelta del luogo, all’inizio ho considerato solo un aspetto: che avesse sufficiente terra da adibire a pascolo. Sono stato sempre attratto dal latte: è un alimento vivo e vivificante, è materno. Tutto quel che ruota intorno a esso ha una sfumatura romantica. Ho poi pensato alle capre anche per ragioni commerciali: il formaggio di capra ha una marcia in più, oggi. Ho iniziato con dieci caprette e un becco, ora ne contiamo circa un centinaio. Un docente universitario di agraria, Luca Battaglini, che ho conosciuto prima di insediarmi, mi ha aiutato offrendomi una panoramica di realtà già esistenti da visitare. È stato un passaggio fondamentale. Poi Daniele Bermond, appassionato allevatore di San Sicario di Cesana, ora mio amico fraterno, mi ha fornito una miriade di informazioni preziose e soprattutto il coraggio di compiere il primo passo. Per affinarmi poi ho frequentato anche dei corsi.

Territorio Cascina Badin
Territorio Cascina Badin © Cascina Badin

Vorrei però fosse chiaro che la scelta della zootecnìa è una scelta quantomai “classista” oggi più che mai, purtroppo: occorre davvero un patrimonio iniziale enorme. L’animale in sé non è costosissimo, è tutto il resto che è travolgente dal punto di vista economico. A noi sono serviti tre anni per metterci in piedi. Il rilascio dei permessi di costruire è stato un incubo quasi kafkiano. Se hai la fortuna di avere un’azienda agricola di famiglia è diverso, altrimenti si tratta di un investimento notevolissimo: occorrono fabbricati, stalla, macchinari, terreni, bestiame, spazi da adibire a rimesse e magazzini, trattore e attrezzature. Sono stupito quando sento parlare dei fantomatici contributi europei per il settore agricolo: esistono sì, e possono raggiungere cifre anche ragguardevoli, ma ne beneficiano solo aziende di grandi dimensioni che operano in modo industriale. La piccola proprietà contadina ne è tagliata fuori, e in ogni caso non vi saranno mai contributi di entità tale che ti permettano di cominciare. Scordatevelo.

All’inizio della nostra avventura abbiamo vissuto tutto con estrema euforia e ingenuità, anche perché per noi è stata un’avventura famigliare, con una figlia di tre anni. Quando era piccola era tutto magnifico per lei, ora ha altre necessità ma sono felice che ricordi i tempi duri vissuti insieme: quando sarà grande si guarderà indietro e questa miglioramento progressivo delle nostre condizioni di vita materiale avrà un senso più profondo: avere tutto e subito così come desideri non necessariamente ti rende felice. Ora, a un passo dal mettere in piedi il programma di commercializzazione, è arrivata la pandemia che di certo non ci ha aiutato.

Cosa significa allevare in modo eco-friendly?
Per me essere eco-friendly significa rispettare la natura degli animali, dunque non umanizzarli e parificarli a noi ma conoscerli e rispettarli per quello che sono. Per essere pratici: per esempio, se la capra ha le corna, non decornarla, cosa che si fa perché, combattendo tra di loro, sprecano energia, che dunque non va a finire nella mammella della capra, che fa meno latte. Per stabilire il loro ordine gerarchico nel gruppo le capre invece hanno bisogno delle corna. Necessitano inoltre del pascolo, ma non dell’erba. Se le liberi infatti vanno a cercare fiori, foglie, infiorescenze e bacche, per questo hanno solo denti nell’arcata inferiore, per selezionare ciò che gli piace di più. Sono animali che girano di continuo, è bene quindi che non abbiano recinti ma siano libere con un pastore che le custodisca in mezzo ai boschi. Devono essere loro stesse. Ed è assurdo che una direttiva europea vieti ancora il pascolo nei boschi, secondo questa norma arrecherebbero danni.

Sono abbastanza certo che il mio formaggio sia un ottimo prodotto – lo dico sommessamente – perché dietro c’è un approccio analitico, ogni diversa questione che riguarda la produzione, dalla stalla alla trasformazione, è affrontata con spirito critico. Abbiamo infatti fatto un enorme sforzo iniziale di comprensione di una realtà che per noi era del tutto nuova.

Cascina Badin Martino Patti
Uno dei prodotti della Cascina Badin © Alessandra Tino

Un altro aspetto importante è che le nostre capre mangiano sempre fieno di collina e concentrato prodotto nel nostro areale, e non il mangime unico alla base dell’alimentazione degli animali che producono latte nelle stalle intensive, fatto di fibra, granella di mais e orzo, farina di estrazione di soia proveniente da Canada, Cina e Brasile, integratori e nuclei che sono chimici. Il latte di questi animali, che noi poi beviamo, e che sempre meno, non a caso, tolleriamo, è dunque fondato sulla chimica. Anche l’igiene in stalla è fondamentale. Noi cambiamo la paglia mattina e sera, anche se purtroppo si usa sempre meno. Oggi gli animali stanno sul cemento perché è più conveniente. Ma con la paglia l’animale si siede sul pulito, sull’asciutto ed è fondamentale perché la mammella è porosa. A volte il latte ha un sapore sgradevole anche per questo motivo. Noi, invece, con la paglia e il pascolo blocchiamo gli acidi che volatilizzandosi danno quel particolare aroma al latte di capra. Ultima cosa, ma non meno importante che ci rende eco-fiendly, è la manutenzione del territorio: mentre pascoli infatti custodisci anche il territorio, il paesaggio, la sua memoria visiva. Io vedo quest’impresa come un’isola di umanità, di condivisione: l’intento sarebbe di sopravvivere guadagnando il giusto, e dare al tempo stesso un po’ di senso alla tua vita. Riscoprire, in un certo senso, i valori che sono alla base della civiltà umana.